Deepfake e sextortion: è possibile difendersi?

Da redhotcyber.com riportiamo un interessante articolo di Stefano Gazzella (privacy Officer e Data Protection Officer, specializzato in advisoring legale per la compliance dei processi in ambito ICT Law) che approfondisce una tematica che molto spesso non viene tenuta in sufficiente considerazione. Che strada può prendere questa pericolosa moda dei deepfake?

Ricordate il caso di Bikinioff, così come le controverse reazioni al fenomeno?

Ebbene: ci sono state alcune evoluzioni a riguardo. Purtroppo, prevedibili stante la destinazione d’uso dell’app. Infatti, il suo impiego distorto non si è certamente fatto attendere più di tanto. E così le cronache si sono dovute occupare di un ampio ventaglio di reati, dalla molestia alla sextortion. Le vittime? Per lo più donne. Anche, e soprattutto minorenni.

Fino ad ora abbiamo avuto modo di apprendere da alcune vicende piuttosto allarmanti in seguito alle denunce presentate. In Italia, un caso che ha coinvolto almeno 5 studentesse (13 anni di età) e una professoressa la quale ha visto le proprie foto caricate su un sito porno. In Spagna, il caso di Almendralejo ha visto coinvolte almeno 20 studentesse (come riporta puntualmente Elisabetta Rosso di Fanpage).

Lo schema ricorrente consiste in deepfake generati senza il consenso delle vittime, che vengono successivamente distribuiti. Ma una volta caricati online, è bene ricordare che i contenuti sono destinati ad avere una permanenza ben più longeva rispetto a quei desiderata che il legislatore vorrebbe imporre. Ebbene, sebbene questa sia l’ennesima ed emblematica occasione in cui ci si dovrebbe chiedere se e in che modo sia possibile predisporre un’azione efficace di prevenzione, ci si troverà molto probabilmente ad assistere alla presentazione di soluzioni salvifiche destinate non solo a rivelarsi inefficaci per la tutela delle vittime, ma soprattutto rischiose per tutti.

Le tentazioni di quel troppo facile soluzionismo digitale.

Un’occasione come questa non può passare inosservata per chi strumentalmente intende perseguire la chimera della sicurezza attraverso un aumento della sorveglianza. Non è certo una novità un tentativo di comprimere libertà individuali e collettive con un pretesto analogo a quello che ha gettato le basi a regolamenti come chatcontrol, ad esempio, per cui si fa leva su un’indimostrata (e indimostrabile) correlazione fra aumento di controllo e di sicurezza (effettiva e non percepita). Ovviamente la componente emotiva gioca la propria parte, confondendo normazione emergenziale con norme d’eccezione, che hanno la forza di rompere gli argini di equilibri e proporzioni. Ma quando un diritto umano viene immotivatamente compresso e gli scroscianti applausi zittiscono ogni obiezione, ecco che la crepa diventa irreparabile.

Sebbene sia all’apparenza solida, questa chimera rivela tutta la propria fragilità nel momento in cui si considera che la sorveglianza non comporta alcun effetto deterrente né vale a dissuadere da taluni comportamenti. Al più, in talune ipotesi, potrà consentire una possibilità di operare una raccolta successiva di prove. Ma in questo caso la violazione è già prodotta e la vittima ne ha già subito gli effetti più devastanti.

Certo, la prevenzione non è un argomento che ha lo stesso hype di un’emergenza. Non gode della magnitudo di un’onda mediatica o di un social trend confrontabile rispetto a quella generata da un danno già realizzato. Non solo: richiede anche un maggiore impegno con azioni coordinate che si pongono ben oltre un fin troppo facile soluzionismo, che il più delle volte nella sostanza è la proverbiale chiusura della stalla dopo la fuga dei buoi. Premette un rifiuto di affrontare dei problemi alla radice, e genera profonde spaccatura tanto nel tessuto culturale quanto in quello dei diritti.

[continua a leggere su redhotcyber]

Pubblicato il:
5/10/2023

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