Faceapp: divertente, ma a che prezzo?

Faceapp: nuovo filtro, nuova mania

Esattamente come un anno fa più o meno in questo periodo (nel 2019 eravamo in luglio), i feed dei nostri social sono tornati a popolarsi di visi modificati, alterati al punto da renderli quasi irriconoscibili ma con una precisione e una veridicità impressionanti. È tornata la Faceapp mania, questa volta perché l'applicazione russa ha lanciato una nuova funzione che trasforma gli uomini in donne e viceversa (l'anno scorso invece il gioco era invecchiare i visi e vedere come saremmo stati con svariati decenni in più). Certamente Faceapp non è l'unica app che permette l'aggiunta di effetti e filtri ai selfie, ma questa ha una marcia in più ovvero l'estrema accuratezza dei suoi risultati. In alcuni casi, è davvero difficile capire che si è davanti a una foto modificata (quindi un fake) tanto è fatta bene ed è plausibile. Ma come fa Faceapp ad essere così precisa?

Cosa si rischia usando Faceapp

Per rispondere a questa domanda analizziamo velocemente come funziona Faceapp. Ogni volta che si carica la foto, per applicare le modifiche l'applicazione preleva l'immagine, la spedisce presso i suoi server, la elabora e la rispedisce indietro. Le foto, quindi, escono fisicamente dai dispositivi per finire da qualche altra parte. Dove? Non è facile saperlo con certezza. Si sa di certo che la software house che possiede e sviluppa Faceapp si chiama Wireless Lab e viene dalla Russia. Interrogata sulla residenza dei famosi super server, Wireless Lab ha negato che si trovino in Russia. Ha detto solo che si tratta di strutture di proprietà di Amazon e Google, lasciando credere che si possano trovare in territorio americano.

Vi siete mai domandati che fine fanno le foto che mandate a Faceapp per vedere come sareste tra 30 anni? Forse dovreste. Anche se l'app stessa dichiara di cancellare le foto dopo 48 ore di permanenza nei server (il che è plausibile, lo spazio non è infinito), nelle condizioni di servizio è scritto che una volta inviate le foto diventano di sua proprietà e ne acquisisce il diritto "perpetuo, irrevocabile, globale e trasferibile" a "utilizzare, riprodurre, modificare, adattare, pubblicare" le immagini. In sostanza, stiamo regalando a una software house i nostri tratti somatici per farne non si sa bene cosa.

La tecnologia che impara da noi

In realtà, uno scopo non dichiarato ma che può essere facilmente intuibile c'è, ed è l'auto apprendimento dei software di riconoscimento facciale. Uno dei motivi per cui Faceapp è così accurata è proprio la sua popolarità. Con milioni di fotografie di visi umani reali ed esistenti a disposizione, i software possono costantemente affinare le tecniche di riconoscimento ed elaborazione "facendo pratica" su persone vere. Avete capito bene: potreste inconsapevolmente fare da cavia alla ricerca e sviluppo che sta dietro a Faceapp, collaborando alla creazione di super-elaboratori di immagini. Pensiamo alle implicazioni in ambito militare, medico, tecnologico (FaceId di Apple vi dice qualcosa?) o di sicurezza. Una società privata in possesso di una rilevante mole di dati biometrici reali fa inevitabilmente molta gola.

Un trucco simile ha un precedente in un altro colosso, ovvero Facebook. Nel 2018 sui social di Zuckerberg divenne strapopolare la #10yrschallenge (mettere a confronto una propria foto attuale con un'altra di 10 anni prima). Circolarono voci riguardo ad un gioco pilotato affinché le piattaforme avessero materiale per studiare concretamente l'invecchiamento del viso. Questo avrebbe reso ancora più preciso il riconoscimento di cui Facebook fa larghissimo uso per i tag delle foto e le funzioni di recupero account. Possiamo quindi essere certi che con queste premesse i dati in possesso di Faceapp non verranno mai venduti? Effettivamente no.

Privacy, due pesi e due misure

Fa anche molto sorridere che questa ennesima ondata di "regali" a una software house privata che non dichiara chiaramente quali siano i suoi scopi e le sue finalità arrivi pochi giorni dopo le infuocate polemiche nate intorno a Immuni, l'app del Governo che dovrebbe servire a tracciare i contagi da covid-19 in Italia. Al momento del suo lancio c'è stata una levata di scudi in difesa della presunta privacy violata, tanto da mettere a rischio la sua stessa efficacia (se l'app non viene scaricata e usata da una fetta consistente di popolazione è inutile). È bastato però un nuovo giochino social per far registrare invece adesioni entusiaste. È veramente solo tutta una questione di comunicazione?

Non sempre però c'è un lato oscuro o negativo: da sempre si usa il contributo degli utenti, consapevole o meno, per affinare gli algoritmi e migliorare gli automatismi che oggi ci consentono di vivere e progettare il futuro. I captcha, ad esempio, quelle scritte un po' confuse che ci viene chiesto di digitare "per dimostrare di non essere un robot", nascono nel 2007 per digitalizzare i manoscritti scansionati. Utilizzare un sistema collaborativo ha ridotto il tempo di digitalizzazione, stimato in 20 anni, in poco meno della metà. Avete presente i cartelli stradali (o gli autobus, le biciclette e le auto) che dovete cliccare per andare avanti in una qualsiasi azione sul web? Affinano l'intelligenza artificiale per le auto a guida autonoma. Gli esempi sono molteplici, alcuni sono a servizio della comunità (come Wikipedia, ad esempio), altri vengono usati in maniera meno lecite. Resta sempre valido il vecchio adagio: "Nulla è gratis: se non stai pagando per qualcosa, allora il prodotto sei tu".

Pubblicato il:
17/6/2020
11/11/2022

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